Non sono neanche qui.

Quelli che seguono sono gli appunti presi in nottate malsane e giorni ad arrostire,

quel che è passato per la mente di uno che ha deciso che se ne va.

 

26.01.12

San Sebastian de la Gomera.

Più pelucherie, meno pelliccerie. Una delle prime cose a cui si fa caso quando s’arriva qui. Questo pare un pezzo di México alla deriva, incastrato in una baia.  San Sebastián.
La Gomera, la felicità densamente spopolata esiste. È fatta di palme e sabbia nera di vulcano. Sta ad altezza d’Africa ma è profondamente diversa dalle sabbie magrebine.
Meno pelliccerie dicevo, anzi neanche una. Neanche un inserto. Qui il sole basta a scaldarti anche in inverno. E fuori dalle vetrine e dai negozi, a guardar bene vedi che c’è rispetto. I pescatori ad esempio il mare lo rispettano eccome. Meno riguardi per i pesci. Ma questa è isola aspra, roccía fusa dal calore ed atta a cactus, platani e vino. Non al resto, almeno spontaneamente. Solo la mano dell’uomo permette il resto.
Qui la natura la mangiano ma niente sprechi ed inizio a chiedermi se sia più decente il veganismo fatto di sojaburger e seitan di fabbrica.
Non so ancora come sia Tenerife. Finora ci sono atterrato, ho usato le stelle di Los Cristianos per una notte come coperta e poi l’ho vista allontanarsi dal tondo culo di un ferry boat. Tornerò a breve che i tempi stringono. Tre giorni e mezzo, tres dias y media. Per ora è amore.
Arrivo, il tempo di prendere a nolo un’auto e parto. Senza meta. Tanto destra e sinistra qui contano poco, almeno qui. E’ una specie di brufolo nel mezzo dell’oceano La Gomera. Ed è uguale se per conoscerla vai verso Playa Santiago o verso destra. La giri tutta in un giorno con quattro ruote.
Cos¡ prenda l’auto quel che vuole. Scalo la marcia e sento che il motore e’ bastante per una guida lenta ma constante.
Salite da muli e discese da decollo, ad un bivio sbaglio e azzecco la strada al tempo stesso. Valle Hermoso, una lingua ridotta di bitume fa da strada in una gola protesta da cactus credo centenari.
Almeno qualcuno.
Di sicuro.
E poi si sale ancora, le palme lasciano il posto al bosco. Partito con 23 gradi mi contento della meta’ scarsa inoltrandomi per un po’ nel verde del muschio che copre ogni cosa nel Garagonej.
Normale che il muschio attecchisca a nord sui fusti. I viaggiatori esperti, quelli veri, usano da sempre il muschio come bussola ma qui no. Qui il muschio cresce ad ovest, che ad una certa ora del giorno la bruma s’accumula in cima, poi scende a cascata. Investe tutto. Lo bagna. Dà vita.
Una nuvola che scende a mille all’ora dissolvendosi come schifata al contatto con i primi segni di civilta’.
Riscendo con lei, risalgo in auto e continuo la ruota-azione casuale. Quando si arriva a Valle Gran Rey c’è un piccolo cartello. Indica Playa de l’ingles, inglese una fava. C’è di tutto.
In paese son quasi tutti tedeschi, vorrebbero quasi dissociarsi da chi sta en la playa ma i freak abbondano e debordano anche sulla piccola spiaggia davanti alla piazza. Entro nella stradina a piedi, alterno lo sguardo. Frammenti di spiaggia rocciosa in avvicinamento, montagna alle spalle fatta a strati rossi, bianchi, gialli. A segnare il passare dei millenni. Poi le mie scarpe che vanno avanti un passo alla volta con me dentro. E furgoni VW o Iveco abitati da lui/lei/bimbibiondi, cani educati, fiori alle fiancate, adesivi con viandante chitarrati.
In spiaggia idem ma compare una sapiente miscela al 10% di crucchinudi.
No, non è una specie esotica. Il crucconudo in realtà per 320 giorni l’anno e crucco e basta. Poi, chi a ottobre e chi a febbraio, c’è la mutazione. Si toglie la pelle finta il crucconudo. E torna splendidamente naturale, persino bello con le palline ballonzolanti e stupite di una improbabile abbronzatura.
Ignoro i gruppetti, evito anche i piccoli muretti di sassi ammucchiati per proteggersi dal vento che qui tira sempre. Voglio solo osservare, immaginare quel posto solo con gli occhi, tanto I miei bulbi son saturi di corpi e li evitano volentieri. Allungo lo sguardo, da qualche parte ad un centinaio di chilometri c’è il confine tra Marocco e Mauritania e poi piu’ in là Capoverde, verso sud. Chissà.
Chiudo il binocolo mentale e torno alla realtà. Lo stomaco reclama cibo. Vado al Supermercado di Playa Santiago a procurarme il necessaire.
Supermercado lo chiamano, lasciandomi perplesso a chiedermi come son quelli piccoli.. quelli non super. Entro, il tipo alla cassa mi guarda sienno’. Meglio, che bello. Niente frottole.
Pago acqua, noccioline, pistacchi e me ne vado al drive-in più grande del mondo. Non c’è scelta. Ogni notte alla Playa del Medio va in scena l’immortalità dell’universo. Niente smog, niente luci, niente nuvole. Nada.
La radio incorporata mi parla piano in spagnolo, io mi stendo fuori dal metallico involucro su quattro ruote.
Sono milioni. Triliardi. Sono più del debito pubblico italiano espresso in centesimi. Ecco cos’è l’infinito. Una celeberrima presa per il culo fatta di stelle e condita di poesia. Ammiro semplicemente quella luce che qualche milione di anni fa partì in ogni direzione plausibile a portare chissà quale messaggio. Forse nessuno. Forse il solo scopo è brillare. Perché quel che vedo ora lassù non c’è più in realtà. Anzi, la sua materia non c’è più. La luce è ancora e sarà dopo di me, di tutti noi. In qualche altra spiaggia.
Però lo stomaco sa anche farsi notare tra i pensieri più nobili. Figurarsi.
Lo stomaco è atto a scatenare guerre almeno quanto il cuore e sicuramente più del cervello. Fa male. Vomito.
Salgo in auto e vomito. Riscaldamento acceso, sacco a pelo. Vomito. Sudo freddo. Caldo. Mi pare di sentirmi chiedere ayuda e rido mentre vomito.
Tremo, vomito e rido. Per otto ore. Forse basta per l’invalidità mentale. Poi il sole. Spunta da dietro le grotte e tuffa l’anima in acqua. Toglie il fiato la sua bellezza più del dolore.
Un conato peggiore degli altri, eppure non c’è più nulla. Metto in moto, se il sole sorge alle sette e mezzo forse a Playa Santiago troverò qualcuno. Neanche a dirlo. A pensarci ora che va meglio, ho superato Pieraccioni nella sceneggiatura. Senza volerlo.
POLICIA LOCAL. Lo sportello parla chiaro e se non basta c’è l’evidenza del vigile nel mezzo a far da scudo ai bimbi chiassosi e traversanti.
Apro lo sportello, vomito e chiedo di un qualunque medico. Anche fattucchiere. Parlo a fatica in italiano, figuriamoci in spagnolo. Ma mi capisce il superuomo. E Con la radio contatta la Guardia Civil. Arrivano giusto in tempo, vomito e li seguo a cenni.
Destra, sinistra, destra, freno, vomito, reparto. In 500 metri siamo al centro medico. Il poliziotto mi porta dentro, mi lascia e va a parcheggiarmi l’auto. Tornerà poi con una piccola cartina per farmi vedere dove.
Ringrazio e svengo, non so in che ordine. Importa?
Dopo X ore sento “es colica stomacal”.
Dopo XX ore sento la sirena un po’ troppo vicina. No, è sopra.
Que pasa senor? Hospital San Sebastián? Poi boh. Mi spogliano, mi misurano di tutto e mi assopisco. Lo spagnolo per noi è facile, non serve tradurre spesso. Gastroenterite y hypotermia. 35.4. Esticazzi.
Non ho orologio, telefono, abiti di ricambio. Per puro caso ho in tasca portafogli e tabacco, il resto è in auto.
Mi rigonfiano a dosi di soluzioni saline e antibiotici in vena, quanto basta per farmi le lastre. Esagerati. È risaputo che basta mettermi controluce per osservare gli organi interni. Per il cuore poi, basta guardarmi in faccia.
Poi a nanna col compitino. Quando farò la cacca dovrò prelevarne un po’ per le analisi. Penso che sarebbe più facile per me partorire, visto che tra vomito e amenità varie avevo finito tutto. Poi realizzo che in bagno c’è l’aspirazione fumi. E che ci fa un impianto di aspirazione fumi se non ci fumi la sigarettina clandestina? Accetto il compito e metto la fialetta con paletta sul comodino. Ho una stanza. Un letto semovente in angolazione gambe/schiena e alto/basso. Dormo. Sfinito.
Rumore plastico.
Che ore..cioè que ora son? Dos y media en la noche. Ma non esiste, è la febbre. Non puo’ essere che riavvolgo quella frase e finisco su labbra, occhi verdi e capelli mori raccolti all’indietro ma non ordinati. Solo pinzati.
Veni Creador Spiritus. Se questo è il paradiso mi converto.
“Como es tu nombre?” “Enzo, es Vicente in italiano”. “Vicente aquí es la normalidad, muy exotico Enzo”. Sorride, mi pianta un ago in vena e poi boh. Scomparsa come il suo turno di notte.
Mi sveglio alle sette, niente cacca. Cammino per  il corridoio, mi ripiglio. Viva i bagni aspirati. Poi alle nove il colpo di genio.
Mangio una fetta biscottata con un caffè decaffeinato rappresentante l’esatto opposto del concetto di ristretto. Però cago.
A volte per esser libero devi mangiar merda. A me va meglio: la consegno.
Quel piccolo plico mi garantirà il ritorno all’aria pura.
Sto bene ma guardingo.
Esco tra le raccomandazioni e arrivo a piedi fino alla Estacion del Guaguas. “Vavasc”, il bus insomma. Sono a San Sebastián e l’auto e a 40 chilometri. Quaranta chilometri qui sono un’immensità. Pago la boleta e torno indietro su un furgone a nove posti che va piano. Piano. Capisco perchè tutti vanno piano. A bordo strada, e a volte al centro, capre. A mucchi o raminghe.
Sono dicono quarantamila in novantadue chilometri quadrati, ma anche invisibili se vogliono. Libere almeno finchè l’uomo non chiederà loro pegno, se son fortunate avranno altra liberta’ in cambio di latte.
Come un’onda orizzontale la strada scende a valle fino al paese, l’auto è stata parcheggiata per ventiquattr’ore, due telefoni, una fotocamera, uno zaino. Tutto in vista e tutto lì. Non conviene rubare in un’isola. Hai poco da scappare e le ricchezze sono altre.
Torno a San Sebastián che domani c’ho il traghetto. Dormire in auto stanotte no. Pension Comprar, venti euro, bagno in fondo. Uno per tutti.
Prendere, che lasciare non è il caso. C’ho ancora qualcosa da smaltire in febbre e la pausa al sole en la playa ha finito di beneficiarmi. Per altri quattordici euro trovo un oggetto stupido ma magico che carica qualunque cosa abbia una batteria al litium. Per il cromum non so.
Lo uso in stanza per caricare il caricabile mentre scrivo, leggo, sonnecchio e mi ripiglio. Sicuramente domattina al risveglio per prima cosa cercherò di capire chi ha messo un armadio marrone ed una porta verde scuro di fronte al mio letto. Ma non mi sentirò spaesato, ora più che mai il concetto di casa è lontano. E siamo solo alla prima tratta.
Saluto Erri De Luca e le sue pagine, Giovanni Lindo in cuffia, lo specchio, il taccuino, la luce elettrica, il buio gratificante delle palpebre, il ronzio del sonno, le braccia di Morfeo e due labbra.
Buenas noche exotico Enzo.

 

 

28.01.12

Plaja La Tejira.

Ho un rifrullo continuo en la cabeza, forse è il sole discontinuo di oggi che si alterna a pioggia. Pioggia è un parolone, qui l’acqua non viene dall’alto. Scende dai monti spinta dalla personalità del vento. Capita di avere la testa bagnata e le gambe asciutte. Ma la cosa più vera è che (rubando il concetto a De Luca) qui la pioggia si accoglie come fanno i fiori. Non fa paura, il ritorno del sole tranquillizza.
Ieri di buonora ho preso al volo il ferry boat lasciando San Sebastian. A forza quasi. A San Sebastian c’è tutto. Pini, cedri, palme in spiaggia, nidi pronti per l’uso e passeracei intenti alla cura, ombra, onde, napoletani col banchetto delle tre carte circondati da taxisti in pausa, panchine rosse o bianche o verdi a richiamare il Messico e non certo la patria del solitario y ramingo viaggiatore temporaneo che scrive.
Oddio, in pochi anni ho cambiato più case che calzini eppure mi considero stanziale tanta è la smania. Qui ci starei per un po’, ho già conosciuto due italiane e ci sono annunci di case in affitto a 300 euro tutto compreso.
C’è mercatino tutti i giorni sulla spiaggia e credo che riuscirei a piazzare anche chincaglierie ai turisti. Che a gennaio c’è pieno lo stesso.
Stamani alle otto al largo c’era una banda scalmanata di tedeschi fosforescenti.
E qui non è il Brasile che poi ad agosto fa freddo e va via il colore bello della pelle.
Alle nove era il turno dei bimbi vocianti che organizzavano tornei internazionali di calcetto o di chissà che altro.
Alle dieci in acqua c’ero io.
E c’è pieno di internet point, fornai, negozi di “chinos” che come in via Sarti non chiudono mai. Bueno, potrei. E’ già respiro ampio il sapere che si può.
Da piccolo passi la vita con la paura dei “no, non si può” e la noia della solita risposta ai miei perché. “Perché no.”. Logico. Se fosse si non sarebbe no e in fondo son problemi nostri i perché. Agli altri animali i perché non servono e lo sanno da soli se è si o no. Senza coadiuvazioni.
Gli animali veri impiegano giorni o al massimo mesi per raggiungere l’autosufficienza, il fare da soli dona loro libertà e la richiede. E tra gli umani è invece raro ormai trovare qualcuno che a trent’anni ha imparato a togliersi un dito dal culo. Ecco perché gli umani hanno accettato la schiavitù e la supremazia dei pochi sui molti. Non hanno la libertà del far da soli, barattata con del cibo, un tetto e poco più. Si scrive sicurezza, si legge schiavitù.
Non conoscendo la libertà non la ricercano. O la confondono con forme di consumismo chiamate “scelta”. Rinunciare al poter rimanere sdraiati al sole se si può, tutto per potersi permettere la scelta tra duecento dentifrici diversi ed uguali.
No, grazie. Me ne basta uno. O al limite cavatemi i denti.
Probabilmente ho iniziato in discesa la mia vita, in un periodo in cui storicamente ed economicamente la mia gente, il proletariato, iniziava a pensare di stare meglio avendo di più. E odio quel periodo, iniziato operaio tra gli operai.. tutti a fingere il benestare per distaccarsi dalla vita del passato, dall’agricoltura e dalla dignitosa povertà dei loro padri. In quella classe son venuto su fino ai trenta, fino al soffio della pentola a vapore che tengo tra le orecchie. Fino ai trenta l’Occidente aveva vinto nelle sue insinuazioni continue. L’Occidente si infiltra ovunque.
Può dichiararti guerra, può bombardarti guadagnandoci pure. E ottenere ricavi e potere anche nel ricostruirti dopo averti massacrato. Chiedere in Iraq.
Oppure il Grande Ovest può corroderti dall’interno e vale poco l’autodifesa non organizzata. Può capitare che sia lui stesso a vendere le armi ai propri nemici, a chiunque voglia combatterlo. Tanto è risaputo che quelle armi non potrai usarle.
Non sai farlo come loro. Sono quindici anni che provo a distaccarmi almeno in parte, con scarsi risultati, da quel concetto di benessere. Poco o nulla cambia.
Prima mi son trovato a poca distanza da due o tre cavalli. Avevano sotto le zampe la stessa terra che calpestavo io. E la stessa aria. E niente recinti. Loro mi sembravano molto più liberi di me. Si fa buio, carico la dinamo della pila che stasera è fresco e mi va di stare in tenda a leggere.
Domani torno in giro, promesso.

 

 

 

30.01.12

Tratto di spiaggia tra El Medano e Los Abrigos.

E cammino. Non faccio altro. Anzi no, cammino e penso lasciando scorrere anche qualche lacrima sulla mia augusta faccia sbarbata di fresco. No, non sono triste.
Dispiaciuto si, forse è solo nostalgia per quel che qui si poteva realizzare in due. Ma è per lei che mi dispiace, che non riesce più a volare.
Qui le lacrime non fanno scalpore, non attirano sguardi e le mischi bene quelle vere con le altre, quelle finte che il vento ti tira fuori quando soffia negli occhi.
E’ un diritto naturale,sacrosanto. Chi non piange perde in umanità, rifiuta una parte di se e solo per credersi uomo. Cazzate.
Sono secoli, millenni che i maschi non possono piangere e se lo vietano. Convinti che a loro tocchi la gestione delle cose della vita. I pianti li lasciano alle donne.
Io no, le mie lacrime le sfoggio come gioielli. Allo stesso modo del sorriso, della parola. Sono parte di me.
Le cose che gli uomini dovrebbero nascondere sono molte. Ma altre.
A partire dalla struttura sociale ed economica che s’è sviluppata con l’avvento dell’homo tecnologicus, termine strano. Ma lo chiamo così quel modello umano da cui sto cercando di allontanarmi. Ecco, di quello un po’ mi vergogno. Altro che le lacrime. E fanculo a chi crede nel progresso tout-court. Io mi dico che è il caso quantomeno di fermarsi che magari siamo ancora in tempo. O forse no. Però, a guardare solo con gli occhi e senza i pessimismi della mente..intorno a me ora c’è modo di ripartire. Meglio e di nuovo. Basta ascoltare gli scogli, annusare il sale che se ne parte dal mare portato dal vento fino a costa. E dal vento rigettato in mare.
Non immaginavo potessi mancarmi così tanto quel blu ondeggiante che in cima si fa bianco quando arriva. Altra scoperta. A star seduti qui, senza assilli, orologi, previsioni meteo e giornali, si possono usare minuti ed ore intere per scavarsi dentro. Avevo nove anni, una graziella verniciata a pennello e tempera di un blu improbabile. E avevo gambe per pedalare e spiaggia a cinque minuti da casa. L’estate iniziava a maggio e finiva a settembre, almeno quella ufficiale. La mia estate durava di più, partiva al primo giorno utile per lasciare il mio giubbotto appeso dietro la porta. E finiva quando mi toccava riprendermelo. Resistevo fino all’ultimo poi, dopo giorni passati con la pelle d’oca, mi arrendevo ad affrontare l’ennesimo inverno. Sono cresciuto così, il mio pensiero dominante era “togliere il giubbotto”. Poi sarebbero venuti altri posti, montagne, colline innevate a sorpresa, città d’un grigio spettrale anche coi palazzi verniciati. Tutto per tornare qui e togliersi il giubbotto. Molta strada fatta e sento che finora è stata quella giusta. Almeno non ho cambiato direzione, buon segno. Lastricata di volti, parole, piante e pianti quella strada. E di sorrisi, gioia, balletti improvvisati per le vie di Copenhagen, cani e gatti, auto e scarpe finite. Sfinite.
Dico grazie a me stesso ed al mio tempo, respiro e dico di nuovo grazie.
Grazie anche per la voce di mia nonna che mi chiamava dal balcone, per la scorza dura che mia madre m’ha passato. Grazie per la mancanza di un padre a fianco che avesse la pretesa di insegnarmi come si diventa uomini. Grazie per gli uccelli che vengono qui vicino sugli scogli a papparsi il bendiddio che il mare ritirandosi ha posato. Grazie per parole come “viento” e “tiempo”,uguali per gli ispanici e per i napoletani. Grazie per il prossimo soffio di vita.
Se non erro siamo in gennaio e forse è lunedi. Sono tre giorni che mangio solo frutta o quasi, che nei piccoli negozietti trionfa. Oggi però ho voglia di cibo caldo quindi investo sei euro al restaurante chino ottenendo una porzione assurda di Chop Suey e riso. La prima volta che ordinai chop suey fu dopo aver sentito il pezzo dei System of a Down, album Toxicity. E si, devo ancora capire se è la musica ad ispirarmi o se si tratta di coincidenze. Altra domanda che lascio senza risposta che è tempo di altre questioni. Mastico, penso e osservo. Dal tavolino si vede la spiaggia, il muretto che la divide dalla piazza. Un tipo mentre ronfa si gira e dal muretto cade giù. Ops. Fortunato, becca solo sabbia. Si forma istantaneamente una squadra di soccorso con un pò di E.R. e molta torre di babele. Spagnolo, francese, tedesco, italiano, inglese. Tutti lì a chiedersi come e perché e a prestar cure. Il perché io lo so: cerveza. Il come l’ho visto. Decido di avvicinarmi solo dopo che son passati quelli della Guardia Civil. Bellini quasi, si son sincerati che fosse tutto ok e se ne sono andati senza neanche chiedere i documenti all’ubriaco di turno. Gli chiedo se sta bene e mi risponde di si, mi dice che stava sognando “the girl of Ipanema”. Ride lui e rido io. Gli infilo il suo zainetto sotto la testa, gli accendo una sigaretta e me ne vado. Lo lascio lì a sognare e me ne torno sugli scogli. Potrei stare qui ore a guardare le onde. Ho una piccola poltrona scavata nella roccia con tanto di braccioli, il sole addosso e l’acqua che arriva di rincorsa, mi sfiora i piedi e se ne ritorna verso l’Africa. E’ oceano, baby.
Me lo godo come fosse un gelato gocciolante, raccolgo con la lingua un po’ di sale dalla pelle della spalla come facevo da piccolo. Mi piace il sapore della salsedine.
Tolgo le scarpe dalla portata del mare e dormo un po’ sperando di svegliarmi già nero come a fine agosto.

 

31.01.12

Camping La Tejira.

“Ragazzi. Ci sono. Ho la soluzione. Ritirata e tutti compatti alle Canarie. Fanculo al resto. Chi mi ama mi segua. Io mi amo talmente tanto che mi precedo addirittura. Son ben conscio che è mezzanotte ed ho fumato per tutta la sera come il camino dell’Andrea Doria. Ma son lucido. E poi non è colpa mia se per venti euro m’han dato così tanta ganja da riempire un bicchiere da birra media. Tocca finirla!
Ero rimasto ai prezzi italici ma già, da noi il problema è la marijuana. E non per le speculazioni mafiose che ci stanno dietro. E’ proprio l’uso che è vietato. Il falso in bilancio si può, una canna o due prima di nanna no. Farei due domande a Fini. Ma non è questo il punto. O magari in parte si. Voglio fondare un nuovo gruppo su fb e chiamarlo Se L’Italia Legalizza La Cannabis Rinuncio Alla Pensione.
Mica sul serio. O si. A me per esempio qualcosa spetterebbe dopo venticinque anni di contributi, tutti d’un fiato. Bene Monti.
Se ci sei batti un colpo.
Se ci fai che ti venga.
Io rinuncio alla pensione, non la voglio. In cambio dai modo a chi vuole di evitare la trafila dal pusher di borgata, dal mafiosetto, dal bulletto di turno. Una catena umana che porta lontano..fino ai campi dove quell’erba viene coltivata per poter campare da contadini che non sanno manco quanti soldi si possono fare con una singola pianta.
Ci pensi Monti? Un bel colpo alla mafia anche. Valutalo.
P.S.:scusa seti do del Tu ma sono ancora cittadino italiano e tu dunque sei mio dipendente. Ti tratto perciò come solitamente i padroni trattano me e quelli come me.
Ciao.”

Stamattina è tutto ancor più lento, leggo quel che ho scritto stanotte e rido. Ma in fondo è tutto vero. Sto prendendo i ritmi locali, il sole sorge alle otto e si tuffa dietro La Gomera che son le sette di sera. Per farsi tutto l’arco da sinistra a destra ci mette un giorno. Calma. Me ne resto qui compiaciuto a guardare i tentativi di un cucciolo d’uomo pannolinato intento a scalare tre gradini,confine tra spiaggia e passerella in legno. Ecco, qui tutto ti invita ad andare a piedi nudi e il legno non brucia come asfalto sotto al sole. Non fa vesciche ai piedi e rilascia quel caldo che fa gustoso il passo. E io che supponevo quel legno a far da estetica. A aver tempo ed osservare anziché guardare va a finire che si vede un secondo fine. Ma noi siamo adusi alla corsa. Diamo per scontati gli orari di lavoro, tassativi. Per anni ho fatto volate al mattino, che se arrivi alle otto e cinque ti tolgono mezz’ora. Come siamo ridotti se non riusciamo a mandare in culo chi ti fotte venticinque minuti? Fanculo è la parola d’ordine. E’ così per tutto. Venticinque minuti è la pena per il ritardo di cinque, e tu campi con mille euro al mese mentre chi ti paga si sente e si dichiara povero a guadagnare il quintuplo. E no. Il concetto di uguaglianza che sta scritto nella carta delle Nazioni Unite del 48 è diverso.
Lì si spiega che l’umanità e fatta di uomini con uguale dignità, sovranità e diritto all’autodeterminazione. L’unico limite è il rispetto per la libertà altrui. Non è male, l’han firmato tutti. Anche i creatori di Guantanamo e dei CIE.
Fanculo è la parola d’ordine.
Considerate le classi dominanti ed i loro appetiti come si può affidare loro una qualunque decisione relativa alla mia libertà, alla mia esistenza?
Autodeterminazione appunto. Così al limite potrò rubare tempo a me stesso, pagarmi quanto e se valgo, decidere di non arricchirmi.
Una piccola precisazione urge. Per ricchezza intendo quella economica anche se basta alzare gli occhi al mare verso le dune per capire che puoi avere tutti i soldi del mondo ma se non hai tempo non sei nessuno.
Nessuno.
Ho vissuto più negli ultimi dieci giorni di quanto non abbia fatto nell’ultimo anno, nel senso che ho più ricordi importanti, cose da rammentare col sorriso. E i ricordi sono la parte essenziale di un’esistenza. Senza memoria è come non esser mai nati.
Con questo non voglio dire che a Bologna si sta male. E’ l?Italia che vorrei quella che si rifà al modello felsineo. Forse è tra le prime tre città d’Europa, con Copenhagen e Berlino. Ma sono opinioni.
Quel che è innegabile è che il mondo è anche (molto) altro. Questa ad esempio, questa isolona triangolare non è Spagna. Gli autoctoni guardano in TV le previsioni meteo del continente spagnolo con lo stesso interesse che porrebbe un valsusino.
Questa è gente canarina. C’è mal d’Africa a lasciare sti luoghi. Qui lo stato c’è. Con calma. C’è per quel che può servirti ma se ne sta un po’ da una parte. Basta non rompere le balle e se rispetti gli altri non c’è problema. Ieri ho conosciuto una ragazza qui, è campana ed ha due figli grandicelli. M’ha raccontato che qui i libri di testo non cambiano edizione ogni anno, l’usato per la scuola è favorito e sovvenzionato. E se proprio non riesci a pagarli, i libri te li noleggiano per un anno. Basta che li tratti bene, l’anno dopo serviranno a qualcun altro che li userà come te.
Le agenzie di lavoro? Pubbliche. E lavorano. Perché più gente sta bene e meno problemi ci sono. Non serve altra motivazione qui.
Ma tu guarda. Per sentirmi in un posto civile devo andare in un reame.


 

01.02.12

Camping La Tejira.

E il blu dipinto di blu esiste. Oggi è stata la giornata più limpida in assoluto. Della mia vita. Non ho mai visto lontano come oggi, neanche quando programmavo la vecchiaia pagando pensioni integrative.
Sto cercando motivi validi per rimanere in Italia. E’ tutto il giorno che lo faccio ed ho messo da parte le notizie di freddo polare, la disoccupazione al 24% e anche la Lega.
Insomma ho cercato di immaginarmi un futuro lì, a Bologna o anche altrove.
Anche ottimistico. Nulla. Non mi viene. Adoro Bologna,l’ho già detto e mi ripeto volentieri, il mio coinquilino è la persona più bella con cui abbia vissuto, il lavoro volendo si trova. E poi. E poi. Appunto. E poi.
Io non sono così, non riesco a lungo a fare il cittadino modello, il bravo ragazzo.
Mi serve carica ogni tanto, vado a molla ed energia solare, con la sola 220V mi stufo.
Ok, cerco allora segnali che possano farmi sognare una riscossa del paese o meglio della gente. Si, una rivolta sociale. Ance minima. Anche uno sciopero serio. Nulla.
Non mi viene.
Gli affetti, quelli si. Ma mi basta sapere che stanno bene e internet aiuta quando i voli low cost non ci sono. Possiamo vederci se se ne sente necessità,almeno con le stesse medie che stiamo tenendo ora che sono a Bologna. E le Torri sono al centro d’Italia.
In piazza Maggiore, una foto al Nettuno. Ci passano tutti. Io pure ci son passato e ci ripasserò. Mi sono cercato a Bologna. Ma non sono neanche qui.
Voglio continuare ad avere la mia sovranità sui pensieri, me lo confermano le note in cuffia ed i ragionamenti che ti vengono quando ascolti testi particolari.
Di quelli che staccano frasi improvvise e zac. Dritte dove servono. Cuore o cervello.
A me capita spesso, ascolto da sempre tutto in cuffia per benino. Me li so scegliere i testi, li gestisco e ci gestisco l’umore. E le verità arrivano.
Una di queste mi urla che un 45enne disoccupato in Italia è un disoccupato.
Qui dove sono ora un 45enne è uno di 45 anni che sta qui. Mi spiego?
Qui importa molto meno quello che fai nello stabilire chi sei. Anzi è facile essere anche senza fare. Ti torna addosso la dignità di persona se non quella superiore di animale. Qui è possibile essere, è facile essere perché non devi pensare ad apparire.
Ho addosso lo stesso paio di pantaloncini da 6 giorni, non li ho mai lavati. Non ho un cambio e i pantaloni lunghi non riesco a tenerli per il caldo. Insomma son sudicio.
Nessuno che si sia anche solo girato. Ovvio, le Canarie son piene di freak che girano.
Che qui si può. Non fa caso nessuno a come te ne vai in giro. Rispetto a me forse farebbe più scalpore Borghezio con le sue guanciotte.
Melo immagino per un attimo piaggiato en la Tejira coi bambini curiosi che gli girano attorno, i turisti che scattano foto e cercano di dargli del cibo, i tecnici intenti a calcolare la potenza necessaria alla gru per sollevarlo senza danni per l’ambiente.
Sorrido poi smetto, che mi pare poco rispettoso il paragone per le balene che inspiegabilmente (!) si piaggiano. E i sonar delle maxinavi non c’entrano mai nulla.
Non sono stato io. Non sono stato, loro. Que viva Capa.
E que viva la musica come vento che sposta la sabbia scoprendo sentieri coperti.
Ecco quel che fa la buona musica. Ti serve carica per un incontro galante? Zac. Vuoi rovinarti la serata pensando agli amori del passato? Zac. Vuoi avvalerti della facoltà di non comprendere? Zac.
Una buona cultura aiuta ma non è strettamente necessaria, è più importante avere la fortuna di ascoltare qualcosa di buono ed il concedersi tempo per l’ascolto.
Ho imparato da ragazzino quel poco di lingue straniere e qualche sprazzo di cultura proprio dalle traduzioni che facevo a penna e con dizionari e vocabolari malmessi.
No, vabbè. Mainelli l’inglese me lo ha insegnato. Se sbagliavo un genitivo sassone rischiavo un -2 . No, non due meno. Meno due. Ovvero al compito successivo dovevi prendere 14 per fare la media del 6.
A volte Mainelli impazziva e davanti ad un compito degno del “Washingtown”Post poteva mollare un 7. Ma in condizioni normali anche quello sarebbe stato appena buono perché troppo “americano” e lui insegnava inglese. A volte bastava un 5 per sentirsi bravi.
Aveva baffi biondi che tenevano traccia di pomodoro, di tabacco e di vecchiaia. Del pomodoro c’era solo il colore, uno strano ineluttabile segno della passione per la pasta al sugo. Poi ho scoperto che nelle lettere personali a volte si firmava col triplice fraterno abbraccio. Ma non mi viene iin mente di pensarlo massone. E’ morto poco dopo la pensione, con una vecchia utilitaria ed i baffi ormai biancorossi.
Mi piace ricordarlo mentre lo rincorro per dargli il compito in classe. Lui al suono della campanella usciva senza preavviso. Una volta ho infilato ilcompito sotto al tergicristallo del lunotto posteriore dell’alfasud. E lui ha spruzzato l’acqua e poi ha azionato il tergi. Ero a tre isolati dalla scuola, ad un semaforo. Se n’è andato ridendo e mi piace ricordarlo.
Non mi son mai posto la questione ultimamente quindi in base ai dati precedenti mi considero agnostico. Ma mi piace l’idea di poter salutare di nuovo Mainelli. A poter ringraziare De Andrè e Rino Gaetano. E Gaber. E poi parlarci un attimo tanto lì c’è tempo per parlare di tutto con tutti. Ci deve essere per forza. E’ infinito.
Tutti calmi anche alle file per parlare coi medium sulla Terra. Niente lamentele.
Aspetti.
Esperi si dice qui.
E aspetterei per poter parlare ancora con mia madre. Niente commozione.
Vorrei soltanto chiederle scusa per essere scomparso dalla sua vista per anni interi. Troppo forte la mia spinta, anzi il mio strattone. Ero disposto a decollarmi per allargare almeno il giro attorno al palo dov’ero legato a catena.
E lei ha provato localizzarmi, c’è riuscita per un po’. Le volevo bene,certo ma non quanto lei a me. Sembra ovvio ma il risultato di un rapporto sbilanciato è la rottura.
Lei è stata la prima donna che ho lasciato. E non importa se ho scontato contrappassi alquanto pesanti in seguito. Non si sconta facilmente. Ma in quel paradiso lei potrebbe ascoltarmi. Basta avere fede, ma a me serve tutto il tg4. Preferisco sognarne uno mio, tutto mio e poi eventualmente giocare a scoprire le differenze tra questo e quel paradiso, coi paradisi di tutti, tutti quelli immaginati nel mondo.
Io avevo fiducia in lei, ero tranquillo. Sapevo che sapeva cavarsela. Siamo una razza tosta, tutti in famiglia hanno qualcosa di normalmente epico tra gli avi che ricordo.
Lei a 70 anni s’è messa con uno di 58. Olè. Vita da poveracci, 400 euro al mese di pensione. Lei risolveva tutto con un fanculo. Ho preso da lei.
Il titolare si suicida e tu perdi il lavoro? Fanculo diceva. E avanti fino al prossimo fanculo. Mia nonna si offendeva quando toccava a lei il fanculo del buongiorno.
Vivevano assieme da millemila anni, entrambe ragazze madri e io unico maschio. I maligni potrebbero dire che è la prova che son figlio di puttana al quadrato.
Mia nonna teneva il broncio sotto al naso aquilino. E quando sentiva arrivare l’aria della F di fanculo cacciava un urlo per non sentire e poi via a friggere. Alle sette del mattino. Friggeva la mia cena. Ho avuto il colesterolo a 300 per colpa dei fanculo di mia madre e delle fritture conseguenti.
Ogni tanto mia madre prima di uscire si dimenticava qualcosa apposta in cucina e passando dietro alla madre sussurrava “Che vuoi che sia, è un invito al piacere”.
Mia nonna sbuffava, mia madre la rimandava a fanculo, mia nonna urlavae friggeva.
Moto perpetuo.
Mia madre se ne andava a lavorare. Se ne andava sempre a lavorare.
Un periodo a battere tesi di laurea in bella copia a cento lire a pagina. Pagine pronte da rilegare. Fino a mezzanotte a volte. E se si sbagliava l’ultima vocale dell’ultima parola dell’ultima riga era tutto da rifare. Solo le migliori riuscivano a volte a recuperare evitando di buttar via accartocciati col foglio venti minuti (e cento lire).
Bisognava anche impaginare tutto per bene comenei libri veri, come col tasto del word che raddrizza e mettein fila tutto. Lei contava lettere e spazi, giocava con le spaziature per arrivare con l’ultima battuta giusto al bordo. Un tetris.
Era brava, 180 battute al minuto senza guardare la tastiera e senza errori. Per assumerle, le dattilografe c’avevano il diploma e l’esame lo facevano con macchine vecchievecchie, nere e coi tasti in salita. Sui tasti non c’erano le lettere, te le dovevi ricordare dove stavano. Anzi no, non te lo dovevi ricordare. Lo dovevi sapere.
Come respirare. Nessuno si ricorda come si fa, si fa e basta.
Immagino mia madre mentre dal’esame con una MS in bocca e una nel portacenere. Accese entrambe. Diploma preso. Era brava. Perchèpure lei erafiglia di dattilografa. Tutte e due sole, l’Anna e la Franca destinate a finire la loro carriera come segretarie di avvocato a Pescara. A vent’anni di distanza e nel mezzo la pausa romana in cui son nato io. Sono figlio di mia madre e di mia nonna io.
Mamma negli ultimi anni è stata a lavorare daunoche ora sta credo nel PdL ad infimi livelli e non mi sorprende. Lei prendeva 800milalire al mese ma di ore ne segnava la metà. Il foglio mensile con le ore di presenza lo compilava lei e faceva in modo di togliere ogni volta il 50%. Cioè lavorava mezzo a nero. Chissà se ci vedeva un bene o un male, se il bicchiere era mezzo pieno o no, se vedeva il bicchiere.
Vai a capire dove ti finisce il gomitolo della vita quando ti cade di mano.
Lei è uscita dalle magistrali a furia di bombardamenti, ha fatto la maestra per un po’. Poi la postina. Poi la macchina da scrivere. Non per scrivere. Da scrivere.
Magari in paradiso le tesi lepagano meglio e le ore non si segnano. Magari.
Ma ora devo aggrapparmi alla quiete intorno per non odiare un po’ quell’avvocato. Che poi c’ho lavorato pure io da lui, due mesi. Poi un pomeriggio me ne sono andato a giocare a biliardo e la settimana dopo vendevo enciclopedie per bambini.
Tornando a lui, lo perdono e fanculo. Vero ma? Tanto in paradiso c’è posto. E’largo.
Ci sono le stelle anche dritte all’orizzonte e non solo all’insù. Tieni il naso dritto a novanta gradi con la spina dorsale e vedi le stelle lo stesso.
Va a finire che la terra è tonda davvero se a un certo punto va giù e fa posto alle stelle. E magari Colombo lo sapeva pure lui e l’aveva capito proprio qui quando ci passò. Lo sapeva e s’è inventato le Indie per guadagnare credibilità.
Stasera, la sera più nitida della mia vita, le vedo pure io da fuori sta tenda che sempre più è casa. Le pareti non contano sempre alla stessa maniera. Capita che non le vedi e succede che te le costruisci apposta con la scusa del vento freddo. Beh, qui il vento me lo prendo in faccia e non è male affatto.
Per le pareti aspetto domani e poi il volo, Bologna e i ciao.